Scatti fotografici sulla Festa della Madonna.
La Chiesa di S. Maria la Preta
La Chiesa rupestre di S. Maria la Preta o della Pietra, in contrada S. Barbara, è stata fondata nell’VIII secolo d.C. dai monaci basiliani in fuga dalla Sicilia, all’epoca occupata dai Saraceni.
La struttura, venne rifatta dopo il Mille, durante il periodo gotico.
È la più antica Chiesa di Viggiano, di cui rimangono poche rovine, sopra un ciclopico bastione di viva roccia a strapiombo sul torrente Casale, affluente dell’Agri. Intorno a questo eremo sorse il primo agglomerato del borgo viggianese, i cui abitanti furono educati al lavoro e alla devozione mariana dai basiliani.
Con i recenti lavori di restauro e sistemazione esterna questo sito è tornato ad essere fruibile ai turisti.
La Chiesa e il Convento di S. Maria del Gesù e la Chiesa di S. Antonio
Il Convento di S. Maria del Gesù venne fondato, nel 1478, dai Francescani Minori Osservanti. In virtù della bolla Ex suprema dispotitione, emanata dal Papa Sisto IV nel 1473, il Commissario per la Basilicata, padre Bonifacio da Mascufo volle erigere una Provincia autonoma di Basilicata. Alla fine del ‘500 i frati che vivono nel Convento sono circa venti.
La Chiesa dedicata a S. Antonio, adiacente il lato destro del Convento, venne riedificata negli anni 1542-1546.
L’impianto originario venne ampliato mediante l’aggiunta di una navatella a fianco della navata principale ed entrambe le navate furono coperte da volte a botte unghiate. Nel 1646 la Chiesa attigua ormai diroccata, venne ricostruita, in un momento di ripresa dell’Ordine francescano; il ‘700 è forse il periodo di maggiore floridezza a giudicare dagli arredi sacri rinvenuti nei vari conventi.
Alterne le vicende successive: all’inizio del 1800 ci si avvia verso la soppressione dell’Ordine che diventa determinante con l’Occupazione francese (1805-1815) del Regno di Napoli e con il ritorno dei Borboni.
Il convento non ospita più i monaci e rimane in disuso per un certo periodo, per poi ad avere nuove destinazioni: sarà prima residenza della Guardia Nazionale Borbonica e poi ospiterà il Convitto del Ginnasio.
Nella seconda metà dell’800 si verificano vari tentativi di riorganizzazione della vita religiosa, ma il terremoto del 1857 scoraggia gli entusiasmi a ricostruirsi delle varie confraternite che si avvicendano La fine dell’800 vede la ripresa del movimento francescano con i due ordini, Osservanti e Riformati, sino al 1897 quando, con la bolla Felicitatem quidam di Papa Leone XIII, nasce l’unico Ordine dei Frati Minori.
Articolato intorno ad un chiostro quadrangolare, ha subito numerose trasformazioni nel corso dei secoli, dovute soprattutto alle diverse destinazioni d’uso. Nel 1873 il Convento fu adibito a Convitto Municipale, intitolato a Silvio Pellico, che, al dire del Caputi, ospitò sia la scuola tecnica che la scuola ginnasiale fino al 1895, anno in cui sia il Convitto che le scuole furono chiuse.
Agli inizi del 1900, fu sede dei Regi Carabinieri. Oggi ospita il Museo delle tradizioni popolari e il Distretto dell’Eni.
I Resti della Chiesa di S. Pietro
Nel 1594 viene fondata la Chiesa Matrice o Ricettizia, dedicata a S. Pietro Apostolo. Pregevole monumento artistico sono i tre pezzi della porta di pietra bruna, di cui i due laterali raggiungono oltre 15 palmi di altezza, con sopra un rosone. Probabilmente ricostruita sulle rovine del luogo di culto di epoca normanna, di questa Chiesa sono ancora visibili i pochi resti di un altare.
La Chiesa di S. Sebastiano
Probabilmente costruita nel XVIII secolo con il nome di S. Maria fuori le Mura, fu ricostruita dopo il terremoto del 1857, nella composizione architettonica simile all’attuale. Prima di tale data aveva dimensioni più grandi, occupava tutto lo spazio della piazza antistante e, quando il fulcro dell’abitato si spostò dal borgo del castello verso l’attuale Piazza Plebiscito nell’ambito del circuito delle Mura, diventò la Chiesa principale. L’interno, è sovrastato da un grande arco in muratura, con soffitto in legno a cassettoni. Il pavimento in marmo, come l’altare, è sovrastato da un grande polittico settecentesco raffigurante la vita di S. Sebastiano, da cui probabilmente prende il nome la chiesa. La sua costruzione sarebbe da collegare anche a problemi di spazio: era necessaria una chiesa più grande per ospitare i pellegrini, soprattutto in occasione delle festività di maggio e settembre. La facciata presenta portale in legno, abbaino con campanella e paraste dalla ricca trabeazione di ordine corinzio.
La Chiesa di S. Rocco
La Chiesa di S. Rocco appartiene alla seconda metà del 1700, fu costruita nella contrada detta Valle a testimoniare lo sviluppo di Via Vittorio Emanuele e Via Pisciolo, quando, ormai saturo il Borgo del Castello, il paese comincia ad espandersi verso l’attuale centro, intorno a Piazza Plebiscito. Ricostruita dopo il terremoto del 1857 presenta un portale in legno, paraste dai capitelli molto semplici e, al di sopra del tetto, due abbaini con campanella.
La Chiesa di S. Benedetto
La costruzione della Chiesa di S. Benedetto risale al 1561, dal nome dell’omonima strada alto-medievale, ai piedi del Castello e vicina alla zona detta delle Forge. La nascita di questa Chiesa, è una prova della sistemazione definitiva, che riceve in questo periodo, tutta la zona circostante. La facciata, è dalle linee molto semplici, con portale in legno, timpano triangolare e una coppia di finestre simmetriche e circolari. Dietro la Chiesa, si trova il campanile in pietra.
La Chiesa della Buona Morte
Il complesso architettonico del Morticello o Chiesa della Buona Morte, viene edificato nella seconda metà del XVIII secolo, tra Via Roma e Via Cavour.
Presenta due accessi: uno dal sottostante deposito a piano terra, l’altro sul lato ovest e vi si accede direttamente da Via Roma.
Nell’Ottocento, era utilizzato come luogo di sepoltura. La facciata, caratterizzata da una grande apertura centrale, che faceva da ingresso prima che fosse murata e demolita la scala esterna e al di sopra da tre finestre circolari; termina con un timpano, coperto poi dall’insegna metallica.
Il terremoto del 1857, danneggiò parte delle strutture, che vennero poi riprese. L’interno, subì notevoli modifiche, con l’accorpamento del nuovo corpo a quello preesistente, formato dalla cappella.
Il successivo intervento del 1957, portò ulteriori modifiche: fu aperto il piano terra, l’attuale porta ad ovest e ampliato il vano. All’esterno, fu demolita la scala a doppia rampa di accesso, murato il portale, il rosone e lasciato come unico accesso quello ad ovest.
L’oratorio fu adibito a cinema, fino al sisma del 1980 e tale funzione determinò la chiusura della cappella. Oggi, con un sapiente lavoro di recupero,è sede di un bellissimo teatro intitolato a Francesco Miggiano.
Archi e Portali
Viggiano, come la maggior parte dei centri dell’Alta Valle dell’Agri con origini antiche, è arroccato su un'altura, scelta effettuata per sfruttare la naturale asperità del terreno come sistema difensivo, ulteriormente potenziato in seguito con la costruzione di mura di cinta oggi inglobate nelle abitazioni o più spesso andate distrutte.
L'odierna architettura presenta le caratteristiche tipiche dell’urbanistica medievale: il fortilizio posto sulla cima della collina in posizione difensiva, con la chiesa sottostante, la tipica composizione dei lotti, posti dal lato meglio difendibile, che seguono l’orografia del sito, con gli assi viari di spina in cui confluiscono le strade minori, i vicoli stretti e appesi, spesso con scale, archi e sottopassi.
Sui portali di alcune case del centro storico e nelle chiavi di volta degli archi si notano, invece dell'usuale stemma nobiliare, bassorilievi, opera degli antichi scalpellini viggianesi che sceglievano e modellavano la pietra viva lungo gli argini del torrente Alli, rappresentativi dell'arte o del mestiere del proprietario o raffiguranti piccole arpe datate dal 1858 al 1882.
Alcune sono a forma di lira antica e racchiudono iniziali forse del musicista; altre sono fedeli alla struttura della piccola arpa viggianese, da sola o con violino; altre ancora sono arpette arricchite da decorazioni e capitelli scolpiti. Queste pietre "parlano" di una tradizione il cui rispetto e ricordo i musicanti viggianesi hanno voluto fermare nel tempo.
Lo sviluoppo urbanistico
In età romana, sede del prisco Vectianum praedium, fu la contrada Marcina o Cottura o Mattina, a mezzogiorno del Monte, gioconda di luce e di casini, a tre miglia dall’attuale Viggiano e non discosta da Pedali, dove si va sviluppando un nuovo centro abitato, che malamente è denominato Villa d’Agri, mentre potrebbe assai meglio chiamarsi Valdagri[1].
Secondo il Ramagli[2], proprio in questa zona, ha luogo il primo insediamento; infatti, nei pressi della contrada Cotura, è stata rinvenuta la sede di un centro abitato con numerosi ed interessanti reperti archeologici.
Importanti ruderi scoperti nei dintorni e non meno importanti oggetti, testimoniano che il primo nucleo insediativo di Viggiano si sviluppò ai piedi del paese odierno, distante da esso circa tre miglia.
Il vibianum pagus vive come latifondo fino alla caduta dell’impero romano, ed ancora durante le invasioni barbariche dei Visigoti, dei Vandali, degli Eruli ed infine degli Ostrogoti.
Intorno all’anno mille, nella zona chiamata tutt'ora Casale, sorsero le prime case .
I monaci Bizantini, o Basiliani, arrivarono dalla Sicilia, scacciati dai Saraceni, e diedero vita alle Lauree, piccoli monasteri posti in alto, su rupi, dove si stava più a contatto con Dio.
L’eremo, la laurea, la cella era il nucleo primo del cenobio o monastero; e questo diventava ben presto un casale, quindi un paese, crescendo man mano dei ministeriali ed operai bisognevoli alle custodie degli armenti e alla cultura dei terreni, che la pietà dei signori e dei cittadini donava ai monasteri in forma di santità e di miracoli[3].
Queste origini spiegano le molte denominazioni greche dei territori intorno ai paesi.
Uno di questi conventi, quello di Atzopan, venne costruito nel IX-X sec. sopra uno sperone roccioso, sul torrente Casale e col tempo divenne polo aggregante per un vero e proprio villaggio.
Oggi la chiesa di S. Maria La Preta è ancora visibile, anche se solo a livello di ruderi, mentre il convento è in rovina.
In questo periodo sorgono i primi insediamenti rupestri basiliani anche nella zona detta delle Rupi Rosse; il luogo si prestava perché impervio e montuoso, la vicinanza dell’Alli e la gradualità del pendio erano adatti a coltivazioni, anche a terrazza, e garantiva la vivibilità laboriosa.
Nel medioevo il paese si sviluppa nei pressi della Chiesa di S. Maria La Preta, nel luogo che Niccolò Ramaglia[4] dice di doversi chiamare Casal Grumentino, per cui Casale si chiama il torrente Grumentino, sotto Viggiano.
Nel secolo X il paese fu importante centro basiliano e, quando aveva l’antico nome di Bozzano, venne fortificato dai Longobardi di Salerno.
Nel settimo secolo, i Longobardi raggiungono Benevento e creano il loro ducato autonomo. Essi si stabilirono a Pescopagano e a Rufo, poi proseguirono per Muro, Vietri e Satriano, fino a giungere nell’Alta Val d’Agri, dove, nelle ville fortificate, i possessores difendevano le loro terre. Si installarono a Viggiano e a Marsico, per poi conquistare Grumentum e spingersi fino ad Anzi, ricostruendo gli antichi castelli goti che erano stati rasi al suolo da Belisario e da Narsete.
In questo periodo l’abitato si sposta nel sito dove è visibile attualmente.
Con i Longobardi Viggiano avrà il ruolo di castrum, con annesso il campo perticato, sulla collina opposta all’abitato, nella zona detta le Croci forse per la sostituzione, dopo la conversione, delle pertiche con colomba con le Croci.
L’idea del villaggio fortificato, soprattutto quello montano, offriva sicure garanzie a tutto il territorio di pertinenza e apriva nuovi modi di convivenza dei contadini con i signori, sia militari che massari.
Gli abitanti del posto, poveri e senza possibilità di riscatto, spesso abbandonano l’agricoltura per dedicarsi ai mestieri da bottega, come i forgiari, che lavoravano il ferro per fare gli zoccoli ai cavalli, i carbonai o i falegnami. Le botteghe erano a ridosso delle torri. Testimonianza di questo restano oggi nei nomi delle due contrade sottostanti il castello dette le Forge e la Legneta.
Questa scelta portò alla costituzione di quelle che furono definite le gilde, associazioni, confraternite di lavoro che anticiperanno le corporazioni.
Al riattamento ed alla risistemazione delle torri di guardia in vero e proprio fortilizio, da parte dei Longobardi e che preludeva all’incastellamento dell’intero abitato, fece riscontro la ricostruzione e l’ampliamento della Chiesa Matrice, dedicata ai principi della chiesa e del diritto cristiano, i SS. Pietro e Paolo, a ridosso della torre orientale, nel significato del potere paritetico (paritatisch).
Il territorio di Viggiano longobarda era compreso tra la zona della Finaita (Finis-esnaida), taglio di bosco e quella del Guardimmaur (Gard-mahre), bosco dei cavalli; i viggianesi usarono, nei confronti del conquistatore, il dispregiativo zammard, modificando l’iniziale del termine lammard, longobardo, per indicarlo come zotico e barbaro. Restano integrate nella lingua viggianese circa trecento parole e modi di dire che testimoniano il passaggio dei Longobardi[6].
Esso apparteneva al Ducato di Benevento, come confermato da Eginardo di Nantes[7] e diventa oggetto di donazione da parte del principe Arechi, al monastero beneventano di Santa Sofia.
Con tale documento del 774, compare quindi per la prima volta il nome Bianum, che resisterà per altri sette secoli e con il quale si svincola dall’antica madre grumentina.
Nell’849 il Ducato di Salerno si scinde da quello di Benevento, a cui resterà legato Viggiano, sotto la giurisdizione del Gastaldato del Latiniano (gli altri due erano quello di Lucania e quello di Laino).
In questi anni i musulmani arrivano in Val d’Agri e distruggono Grumentum (872) che da allora viene abbandonata; le popolazioni si rifugiano sulle colline o tra i boschi, nei casali o nei centri abitati, ed ecco che sorgono Saponara, Moliterno, Marsicovetere, Montemurro e Viggiano.
Nel periodo longobardo, si assiste ad una fase di incastellamento dell’abitato di Viggiano, si costruiscono le tre torri ottagonali sul luogo dove già esisteva una torre di avvistamento e, sotto la torre orientale, la Chiesa Matrice dei SS. Pietro e Paolo. Delle torri, restano alcune testimonianze abbastanza visibili, della Chiesa è caduto quasi tutto.
L’incastellamento, cominciò con le cinte murarie, utilizzando quelle, o parte di quelle, esistenti.
Si preferì insistere sull’abitato posto sulla cima di centro dei tre monti dove le stesse case, incastrate a nido di rondine e rivolte prevalentemente verso Grumentum (est), le une con le altre costituivano una sorta di sbarramento murario nella zona rocciosa e murgica, mentre fu creata una sorta di argine di fortificazione esterna, nella sezione a finestra a tutta vista sulla Valle dell’Agri, che ancora oggi viene chiamata Le Mura.
L’abitato doveva estendersi dalla zona immediatamente inferiore alle torri, fino a Via S. Benedetto, considerando anche una ulteriore espansione dovuta alla caduta di Grumentum ed alla invasione Musulmana (872).
Alla sommità dell’abitato si ergevano le torri castrensi e, immediatamente al di sotto, la Chiesa Matrice dei SS. Pietro e Paolo, considerata dal potere militare come la cappella del Castello.
All’esterno dell’abitato, sul declivio, doveva esserci la zona delle colture con gli orti, poi man mano a scendere i terreni seminati a grano, gli uliveti e le vigne, i prati e poi l’incolto sino alla strada per Grumentum.
Fuori Le mura si svolgeva l’azione esterna dei contadini, dei pastori, dei boscaioli e, più ampiamente, quella dei negotia, affari, mercatura, commerci, transumanza.
All’interno de Le Mura si continuarono a praticare le attività di artigianato e della lavorazione del ferro, a Le Forge, e, in maniera più allargata, professione antica come quella della strutturazione del legno, anch’essa nata in passato come supporto all’uso del Castello.
Insieme a queste, venivano esercitate le libere attività artigianali dei calceolarii (calzolai), dei falegnami di bottega, dei muratori e scalpellini, dei macellari.
Viggiano non fu certo il solo esempio di villaggio montano fortificato ad assumere il ruolo di castrum in Lucania.
Torre di Satriano, Santa Maria d’Irsi, costituiscono, come altri centri della Lucania (San Vito, Poliporo, Santa Maria d’Anglona, Timmari), esempi suggestivi di centri urbani altomedievali rilevati dalla fotografia aerea. Torre di Satriano o Satriano Vecchia, sorgeva sulla sommità di un’altura dominante l’antica strada che da Potenza porta verso l’Alta Val d’Agri. Le mura altomedievali risultano impostate su quelle del centro indigeno (sec. IV a. C.), mentre la torre (a pianta quadrata con cinta propria), ubicata sul punto più alto della collina, costituisce l’unico resto dopo la distruzione operata nel 1420 dalla regina Giovanna[8].
Il Castrum Biani, durerà ben oltre la dominazione angioina.
Dalla metà del X sec. e fino alla conquista Normanna ci sarà una seconda colonizzazione Basiliana, con insediamenti rupestri e non, come un monastero nella località detta Cirillo, sotto la collina delle Croci, o la Chiesa di S. Maria la Preta, a valle del centro abitato.
Nel 1100, i saraceni arrivano anche a Viggiano e costringono i monaci basiliani a scappare.
I superstiti si rifugiano nei centri circostanti le cui popolazioni, terrorizzate dalla possibilità di costituire facile preda dei saraceni, si trasferiscono rapidamente sulle alture, più sicure delle pianure abitate fino ad allora.
Le campagne erano asettiche in fatto di religione o del tutto pagane ed in esse si rifugiava gran parte della popolazione che fuggiva dalla città in seguito alle invasioni o ai soprusi degli invasori. Il più delle volte la fuga era motivata dalla crisi di insicurezza dello Stato che generava la crisi dell’organizzazione della città, sempre esposta e senza più tutela.
Tutto ciò portava ad un arretramento ulteriore delle sedi urbane, ancora una volta dalla valle verso la montagna, gli anfratti, le grotte, i luoghi inaccessibili.
Tale è la sorte del paese che nasce, in questo periodo, come abitato compatto, sulla cima della collina a circa 1000 metri di quota immediatamente fortificato con delle mura.
Nell’area fortificata sono comprese una o più torri di avvistamento, poste sulla sommità, probabilmente già costruite in precedenza.
Non abbiamo notizie precise sull’entità della popolazione del primo abitato, ma riteniamo che essa, tenendo conto dell’ampiezza del territorio racchiuso dalle mura, dovesse essere molto consistente.
La nuova Viggiano sorse su un colle alto 1023 metri sul livello del mare, intorno ad una di quelle torri di guardia che sorgevano su tutte le alture e che, successivamente, vennero trasformate nel Castello feudale.
Il borgo antico di Viggiano, è costituito dal nucleo del Castello e dalle abitazioni che si sviluppano attorno a questo, a semi anelli concentrici, seguendo le curve di livello e quindi l’acclività del suolo, tipico dell’epoca medievale.
Dal sec. XII, Viggiano sarà sotto il dominio dei Normanni. .
Nel registro di Federico II del 1239 si parla di un Berengarius de Biziano come signore del paese.
In questi anni, le tre torri vengono trasformate in un complesso unitario, riconoscibile come Castello.
Dal XII al XIII sec. il paese si espande definitivamente fino alla zona delle Mura, oltre via S. Benedetto, e fino a via S. Oronzio, continuazione a case fortificate della cinta muraria che, nella zona dell’odierna Piazza Plebiscito, doveva avere la porta di ingresso al paese.
E’ probabile che in questo periodo venga anche ricostruita la Chiesa Matrice e che venga costruita una Chiesa per S. Maria del Monte, l’attuale Chiesa Madre.
Dopo il 1266 regnano gli Angioini. In seguito alla rivolta del 1268, a cui partecipa anche Viggiano a favore di Corradino di Svevia, diventa feudatario Bernardo de la Baume, familiare di Carlo I e Giustiziere di Basilicata.
Nel 1277 si ha la prima notizia relativa al numero degli abitanti: ci sono 205 gruppi soggetti a tassazione che possono essere 820 o 1230 abitanti, a seconda che un gruppo sia composto da 4 o 6 persone; questi dovevano provvedere anche al mantenimento del castrum di Anzi.
Dall’inizio del sec. XIV Viggiano è feudo di Giovanni Pipino.
Dal numero degli abitanti e dalla situazione viaria è possibile ipotizzare uno sviluppo del paese nell’area che da Piazza Plebiscito scende ai piedi delle due colline di Montecalvario e del Castello.
Possiamo quindi dire che il borgo medievale raggiunge la sua massima espansione e definizione.
Si delineano, le caratteristiche dell’urbanistica medievale: il fortilizio, posto sulla cima della collina in posizione difensiva, con la chiesa sottostante, la tipica composizione dei lotti, posti dal lato meglio difendibile, che seguono l’orografia del sito con gli assi viari di spina, in cui confluiscono le strade minori, i vicoli stretti e appesi spesso con scale, archi e passaggi sotto i piani inferiori delle case, maggiormente presenti nella parte alto-medievale (gli assi di spina alto-medievali, sono Via S. Benedetto e Via S. Oronzio, ma anche Via S. Pietro e Via Legneta).
Le strade principali dello sviluppo trecentesco sono invece Via Margherita di Savoia e Via Regina Elena; in esse confluiscono i vicoli e le strade secondarie, di forma irregolare, con i lotti, di dimensioni e forme diverse e anch’essi irregolari, che seguono l’orografia del sito.
Al XV sec. appartengono la zona dei Pozzi e di Montecalvario: è ipotizzabile che sia stata costruita prima la zona detta dei Pozzi in quanto più vicina alle Mura e al Castello, e poi quella di Montecalvario, sulla collina delle Croci, a partire da Via Regina Elena.
Gli isolati sono disposti in maniera trasversale rispetto alle due colline, le case sono quasi tutte delle stesse dimensioni ed unite in modo da formare degli isolati stretti e lunghi che seguono l’andamento delle strade. E’ interessante notare come solo le strade trasversali siano larghe e non in pendenza, a differenza dei vicoli stretti e corti, spesso con scale molto ripide. La zona di Montecalvari, è più estesa e si sviluppa dal basso verso l’alto.
Visti i dati della popolazione, (il più prossimo a questo periodo è del 1532 e riporta quasi 2000 abitanti), non è da escludere che questa si sviluppi anche durante gli anni successivi, specie nel ‘500, mantenendo però la stessa disposizione dei lotti.
Questo sarà un periodo di prosperità per il paese che, nel 1590, arriverà a 578 fuochi (2312 o 3468 abitanti).
La zona di Montecalvario raggiunge la sua struttura definitiva e si sviluppa la zona adiacente le Mura.
Nel 1560 si edificano le Chiese di S. Benedetto, di S. Antonio Abate e di S. Nicola. A queste si aggiunge la Chiesa di S. Pietro fondata, nel 1594, sul luogo della Chiesa Matrice e di cui oggi restano solo i resti di un altare.
Nel 1594 la peste colpisce il paese: i fuochi passano a 500 (78 in meno per circa 400 abitanti), il che porta ad escludere ulteriori sviluppi, almeno fino alla metà del ‘600.
Tra la fine del 1500 e l’inizio del 1600 l’abitato, dalle immediate vicinanze del Castello si estende verso il basso nell’ambito delle Mura, mentre un piccolo nucleo abitativo comincia a sorgere sull’altura adiacente, che corrisponde all’attuale zona delle Croci.
Nel 1648 si assiste ad un incremento della popolazione, dovuto ad un periodo di prosperità.
Nel 1656 si verifica un’altra epidemia di peste.
Da alcuni atti notarili si deduce che non pochi viggianesi donarono i propri averi alla Chiesa di S. Maria del Monte; l’entità dell’epidemia è testimoniata dalla forte diminuzione della popolazione: si passa dai 695 fuochi del 1648 ai 314; la popolazione è più che dimezzata.
Seguono la carestia del 1672 e il terremoto del 1673.
La relazione ad limina del Vescovo Pinerio, redatta dopo il terremoto, è una testimonianza delle disastrose condizioni in cui versa il paese, oltre che dell’entità del patrimonio ecclesiastico: esistono in tutto 20 chiese, di cui 9 in paese, e nessuna è diroccata.
Nel 1700 l’abitato si estende fino all’attuale zona di S. Oronzio, con tutta una serie di fabbricati costruiti a ridosso delle Mura longobarde ed altri fabbricati ancora più a valle. Intanto ha preso consistenza la zona delle Croci, nella quale sono stati edificati diversi palazzi affiancati da edilizia minore.
Nel 1735 viene ricostruita la Chiesa di S. Maria del Monte, gravemente danneggiata dal terremoto del 1673.
Sembra questo un periodo di prosperità per il paese che raggiunge i 4322 abitanti.
Nell’abitato a ridosso di Via S. Oronzio e delle Mura vengono costruite nuove case e palazzi nobiliari; lo stesso succede a Montecalvario.
Ormai, il centro del paese si è spostato nell’attuale zona di Piazza Plebiscito, con la Chiesa di S. Maria del Monte a fare da fulcro allo sviluppo. A questo secolo sembra appartenere anche l’Oratorio del Morticello o Chiesa della Buona Morte, all’incrocio tra Via S. Benedetto e Corso Umberto I.
Nel 1806 un altro terremoto danneggia l’abitato.
La Statistica del Regno di Napoli, disposta da Murat nel 1811 e terminata dai Borboni, ci dà il quadro della situazione economica di Viggiano che in questi anni risulta abbastanza florida. Ne è testimonianza l’incremento della popolazione che, nel 1805, è di 5700 abitanti e sale, nel 1857, a 6634, il massimo numero che sia mai stato raggiunto.
L’abitato raggiunge una forma simile a quella del primo novecento.
Con la dominazione francese si costruisce il cimitero alla fine di Via Margherita di Savoia, fuori dell’abitato per ragioni igieniche, potendo quindi escludere uno sviluppo in questa direzione, almeno fino a qualche anno dopo il 1815.
Dai dati del Catasto di Sezione del 1816 si rileva che il paese comprende le zone di: Montecalvario, Aricella, S. Giacomo, Sotto il Palazzo (sotto Piazza Plebiscito), Valle (non completamente sviluppata), Congregazione, Sotto l’Orto (sotto le mura), Pozzi, S. Nicola Tolentino, Forge, S. Benedetto, Case Arse, (sopra la chiesa di S. Maria del Monte), Congregazione, S. Nicola Vescovo, Trinità, Castello, Legneta, Pisciolo (non sviluppata), Valle, Piazza della Madonna, Arco dei Santi.
Le Chiese esistenti sono: la Chiesa Matrice al Castello, S. Maria del Monte, S. Benedetto, S. Nicola Vescovo, S. Angelo, la Chiesa della Trinità, la Congregazione della Buona Morte, quella del Principe e poi la Chiesa di S. Rocco, nella contrada detta Valle, all’inizio dell’attuale Via Vittorio Emanuele e la Chiesa di S. Sebastiano, in Piazza Plebiscito, queste ultime dal prospetto molto simile, il che fa supporre che siano state costruite entrambe nella seconda metà del ‘700.
Alla costruzione di queste ultime due chiese, nel XVIII sec., si può collegare anche uno sviluppo delle relative zone: la Chiesa di S. Sebastiano testimonia l’ormai avvenuto spostamento del centro cittadino. La sua costruzione sarebbe anche da collegare a problemi di spazio per i pellegrini, durante la festa di maggio e settembre, allorquando la statua della Madonna viene portata in questa chiesa prima di trasferirla sul monte. Quella di S. Rocco testimonia lo sviluppo di Via Vittorio Emanuele e del Pisciolo.
Esistono anche diverse case nobiliari, appartenenti alla famiglia Sanfelice: palazzi di proprietà del Principe sono situati a Via S. Pietro (dietro la chiesa e collegate internamente ad essa con corridoi), sul Largo G. Verdi e lungo il Corso Meridionale (le prime due sono state divise in tanti lotti già nell’800; invece la terza, che conteneva anche una cappella privata, è ancora in una forma simile all’originaria); a queste si aggiungono il Palazzo Pisani (con l’oratorio privato), il Palazzo Raja (sopra la Chiesa di S. Maria del Monte), l’attuale Palazzo del Comune e il Palazzo De Cunto, che si trovano tutti tra il Castello e le Mura e poi altri palazzi o grandi case con giardino, nella zona di Montecalvario e su Via Regina Elena.
E’ sicuramente dal secondo decennio dell’800, fino al 1857, il periodo di maggior splendore per l’edilizia. Si costruisce lungo il Corso Meridionale (attuale Via G. Marconi), lungo il Corso Vittorio Emanuele e su Via Pisciolo.
Nell’800 il baricentro dell’abitato, si sposta verso il centro storico attuale, nonostante la Chiesa di S. Pietro continua ad essere la chiesa principale.
Dopo il terremoto del 1857 la chiesa principale del paese non è più S. Pietro ma la Basilica di S. Maria alle Mura, costruita sul luogo della cinquecentesca Cappella del Deposito.
Si sviluppa, poi, la zona verso il Cimitero, al di sotto di Montecalvario, con nuove grandi case nella parte bassa, costituite spesso da due piani più il giardino e l’orto sul retro sul quale si affaccia il terrazzo del piano superiore.
E’ possibile che in questo periodo si operino dei tagli nella struttura urbana precedente, con strade larghe a congiungere gli assi dello sviluppo dei secoli precedenti. I tagli più visibili servono a collegare Via Regina Elena e Via Margherita di Savoia e sono principalmente la Strada Nuova al Camposanto, la Via Rossini, ma anche Via Genova e Via Mario Pagano (che però è riferibile come sviluppo di una strada del XIV sec.).
Si può dire che, già in questi anni, Viggiano assuma la sua forma definitiva, che non cambierà almeno fino alla seconda metà del ‘900, (che è poi quella della planimetria in scala 1/1000 riferibile al Catasto di Impianto).
Nel 1857 un violentissimo terremoto colpisce la Basilicata e anche Viggiano viene distrutta: crollano molte case, palazzi e chiese.
Camminando per i vicoli del paese si nota che le case hanno quasi tutte dei portali in pietra, elegantemente rifiniti, e, su alcuni di essi, appare scolpita un’arpa portantina, di tipo viggianese, una lira o un violino, con inciso sotto la data, a partire dal 1858 al 1882 circa. Già nel 1876, il giornale locale, dal nome alquanto significativo: L’Arpa Viggianese, poteva intitolare: Viggian proprio per l’arpa ha mutato in casa ogni tugurio….
Il paese viene quindi ricostruito sulla struttura urbana esistente, già prima del 1857.
Nel ‘900 ed in particolare nel secondo dopoguerra, si assiste ad una nuova fase emigratoria, il numero degli abitanti torna a scendere e molte case nel centro storico, restano vuote.
Nascono nuove case, principalmente su due assi di sviluppo: uno rivolto alla nuova Zona Industriale, che sembra essere la naturale continuazione delle scelte prese nei secoli passati, ed un altro rivolto a Nord, nato a partire dagli anni ’70 lungo Viale Vittorio Emanuele, che rispecchia le nuove esigenze economiche con il collegamento alla Fondovalle dell’Agri e con Villa D’Agri.
La moderna planimetria, vede uno stradone centrale (Viale della Rinascita), che si immette, come un asse di simmetria, nell’impianto urbano a farfalla dove una piazza-atrio apre il paese al mondo. Lì si dividono e si uniscono le ali fondamentali della città: quella del Borgo di Sotto, oggi poco abitato, e quella che nasce dal Nucleo Originario. In quest’ultima, la parte di sopra, le Mura, raggomitolata intorno al sito roccioso e murgico del Castello, appare distinta dallo sviluppo successivo che, digradando sotto il Belvedere della Piazza del Municipio, fa di Viggiano una bella e vivace città-paesaggio[9].
A Viggiano, si respira un equilibrio straordinario tra lo spirito del luogo, così armonioso con la natura come vorrebbe la prima spinta all’esistenza della città, e un’aria di mondo, veramente diversa dal solito.
Da dove provenga questo originalissimo equilibrio, lo spiegano due fatti.
Il primo risale alla presenza della cultura dei Monaci Basiliani, ai tempi della seconda colonizzazione bizantina dalla seconda metà del sec. IX al 1071, i quali valutavano attentamente, prima di insediarsi, le potenzialità topologiche: tutelabilità, morfologia e tipologia del suolo, caratteri dell’habitat utilizzabile, clima e disponibilità della popolazione locale; dopodiché, se decidevano di fermarsi, i monaci contribuivano fortemente, a dare un ordine all’iniziale città-natura:
all’esterno del territorio abitato, sul declivio, era sistemata la zona delle colture con un concentramento di orti e, gradualmente, terreni seminativi, preferibilmente a grano, poi oliveti, vigne, poi prati umidi e poi, l’incolto. (…) Fuori le Mura si svolgeva l’azione esterna dei contadini, dei pastori, dei boscaioli e, più ampiamente, quella dei negozia, affari, mercatura, commerci, transumanza[10].
L’altro elemento, che apre al mondo, sono i famosi suonatori viggianesi, girovaghi in gruppo non solo per l’Europa che, di ritorno a casa, diffondevano quanto appreso. Le stesse idee massoniche furono importate a Viggiano da questi globe-trotter della musica: si spiegano così anche i motivi dell’arpa e i motivi massonici, frequenti nelle decorazioni, nei bassorilievi e nelle pietre portali.
Bibliografia e riferimenti:
[1] N. Ramagli, op. cit., p.165
[2] Op. cit.
[3] G. Racioppi, op. cit.
[4] N. Ramaglia, Memorie Grumentine-Saponariensi, Moliterno, 1736, cap. II
[5] Op. cit., p. 152
[6]G. G. Monaco, Viggiano, Lingua, Lessico, Pariemologia, Glossario, Potenza, 1996, p.22
[7]Vita di Carlo Magno, Roma, 1988, p.95
[8] G. Schmiedt, Le fortificazioni altomedievali, Torino, 1973, p. 132
[9] A. Sichenze, Città-natura, nature city in Basilicata, Novara, 2000
[10] E. V. Alliegro, L’Identità Sommersa Viggiano, Viggiano, 1997, vol.1
Basiliani e periodo feudale
Nel 535 d.C. Belisario, generale dell’imperatore greco Giustiniano, conquista l’Italia Meridionale ed è in questo periodo, durante un ventennio di lotte tra Goti e Greci, che giungono dall’Oriente i primi monaci basiliani. Si ha notizia certa che, nel 565 d.C., questi monaci sono presenti in Val d’Agri, fondano una serie di comunità monastiche finalizzate alla preghiera ed al lavoro, vere e proprie oasi nella generale distruzione prodotta dalle guerre che si susseguono senza interruzione.
Un documento del secolo X accenna ad una provincia di Marsico, riferendosi ad una di quelle ripartizioni minori o distretti intorno al fiume Agri, che corrispondeva, sotto i Bizantini, al castaldato o comitato dei Longobardi.
Nel 571 Alboino, re dei Longobardi, conquista il Sannio e, nel 589, il longobardo Autari fonda il Ducato di Benevento del quale fa parte l’intero territorio di Viggiano.
Nel periodo intercorrente tra l’844 e l’851 il Ducato di Benevento si scinde in due principati autonomi, quello di Benevento e quello di Salerno; quest'ultimo comprende, alla metà del sec. IX, tutta l’antica Lucania ed è a sua volta suddiviso in castaldati, fra i quali quelli di Grumento, al quale appartiene Viggiano, e di Marsico.
I Longobardi da Satriano si spingono verso l’Alta Val d’Agri dove, nelle ville fortificate, i possessores difendono le loro terre. Installatisi a Grumentum attraverso la via Herculia, spingendosi fino ad Anzi, ricostruiscono i castelli goti che erano stati rasi al suolo da Belisario e da Narsete[1].
Le loro abitudini funerarie militari consistevano nel sovrapporre ad una pertica una colomba di legno, con il becco rivolto verso il luogo dove la persona era morta, poste in luogo prospiciente e visibile dal centro abitato, rito che fu presto sostituito dalla presenza di croci latine. E' questa, probabilmente, l'origine della denominazione della collinetta de Le Croci a Viggiano.
Dalle origini fino a questo periodo, e quindi per più di mezzo millennio, Viggiano si presenta come un latifondo dipendente, dal punto di vista amministrativo, da Grumentum.
La situazione si modifica radicalmente prima con le invasioni degli Arabi di Sicilia e poi dei saraceni che, nell’872, assalgono Grumentum e, nel 944 nonostante la presenza di fortificazioni, la distruggono.
I saraceni distruggevano ogni immagine sacra che trovavano sul loro cammino; i monaci ebbero il tempo però, durante la fuga, di seppellire, sul monte sopra Viggiano, un’immagine di Madonna scolpita nel legno.
L’origine della statua della Madonna è un mistero, mentre è prodigioso il suo rinvenimento. In tempi di atroci persecuzioni anticristiane i fedeli, per preservare da ingiurie e profanazioni immagini e reliquie di santi, le occultarono in luoghi reconditi e inaccessibili.
Uguale sorte ebbe questa statua che da secoli giaceva occulta, sopra il più alto monte dell’agro di Viggiano.
Venne fuori una statua di legno dorata, di scultura greca, la gran Regina del cielo, in seggio, dal volto bruno olivastro, amabile nello sguardo, vestita alla greca, con corona imperiale, con un aureo manto che la rende maestosa, avendo sulle ginocchia un bambino di simili fattezze e nella destra una palla[2].
La statua fu collocata in una piccola cappella, denominata S. Maria del Deposito, che diventerà poi la Chiesa Madre di Viggiano, mentre un’altra cappella fu edificata sul Monte, nel luogo del ritrovamento.
Si tramanda che, intorno al 1400, alcuni pastori che ai piedi del monte di Viggiano guardavano le greggi, sul far della sera notarono una lingua di fuoco sulla cima del monte. Vi salirono e scavarono trovando l’effigie della Madonna, nascosta più di due secoli prima dai monaci fuggiaschi. Ora, ogni anno in maggio, la statua della Madonna viene portata in processione solenne dal paese al monte per poi, la prima domenica di settembre percorrere il cammino inverso.
La Madonna nera di Viggiano è il patrono della Basilicata.
Il culto che della Vergine bruna ebbero ed hanno gli abitanti di Caggiano, già sede di monaci bizantini e di lingua greca[3], induce a pensare che la statua della Madonna di Viggiano risalisse ad epoca bizantina.
Di altre statue che, in tempi di eresie, furono trovate prodigiosamente in Lucania sono piene le nostre storie; quella di Carbone fu trovata in un bosco dove poi sorse il Monastero di Orsoleo; in un burrone la statua di S. Maria della Rupe a S. Martino d’Agri, tanto somigliante a quella di Viggiano.
Oltre alle tracce tutt'ora visibili dell’insediamento dei monaci basiliani nella zona, resta notevole l’insegnamento che i monaci trasmisero agli abitanti del luogo, riguardo l’uso del sambuchè, l’arpa portatile da collo, che avrebbe permesso loro una certa emancipazione economica oltre che culturale attraverso la musica.
Una nuova suddivisione dei feudi è riportata nel Registro dei Baroni di Federico II, compilato per la prima volta tra il 1154 e il 1168 e poi aggiornato nel 1239. In esso si parla di un Berengarius de Bizano, sicuramente riconoscibile come feudatario di Viggiano, il cui feudo fa parte del Giustizierato di Basilicata; il termine Bizano deriverebbe da un Vettius ed anche Vedius delle Iscrizioni[4].
Nel 1268 si scatenò una rivolta contro Carlo I d’Angiò, alla quale partecipa anche Viggiano, rivolta determinata dal ritorno di Corradino di Svevia e dalla volontà di scacciare l’angioino per ridare la reggenza alla casa sveva.
Nel periodo angioino aumentano le terre infeudate ma il dominio è del re piuttosto che del feudatario.
Viggiano, dopo la rivolta, viene assegnato a Bernardo de la Baume, milite e familiare di Carlo I nonché giustiziere di Basilicata.
Nel 1278 gli abitanti di Viggiano o Bianum devono provvedere al mantenimento del castrum di Anzi.
All’inizio del XIV sec. è feudo di Giovanni Pipino e poi di Roberto Sanseverino; in seguito lo sarà dei Dentice, dei Sangro, dei Loffredo ed infine dei Sanfelice.
Intanto il paese cresce sempre di più. I viggianesi, maestri suonatori di arpa, formano piccoli gruppi di suonatori, accompagnando l’arpa al flauto e al violino. Vendono musica, sono sempre più conosciuti; durante l’estate vanno in Russia, in Sud America, in Francia, portando con sé gli strumenti della zona; durante il periodo invernale, tornano al paese, acquistano terreni e incidono alla crescita dell’economia del paese.
Nel 1456 si verifica uno spaventoso terremoto a causa del quale muoiono più di trentamila persone e molti abitati sono distrutti.
Sappiamo che, nel 1467, il paese è feudo di Giovanni Dentice, riconfermato da Alfonso I d’Aragona, che istituisce pesanti tasse o pedaggi sul trasporto delle merci in molte zone del regno, già povere in quanto prive di qualsiasi forma di scambio. Anche Viggiano è inclusa nella lista dei pedaggi compilata nel 1469 e che verrà abolita solo nel 1789.
Il periodo aragonese è costellato da rivolte represse che durano fino all’invasione del regno di Napoli da parte dei Francesi guidati da Carlo VIII.
La contesa circa il possesso del regno tra Spagnoli e Francesi viene risolta nel 1501, quando Ferdinando il Cattolico, re di Spagna, e Luigi XII, re di Francia, si dividono il regno: la Basilicata resta sotto il dominio degli Spagnoli.
Quanto a Viggiano, sia il feudo che il castello sono concessi a Luigi Dentice, distintosi nella battaglia di Ravenna contro i Francesi.
E’ questo un periodo di prosperità per il paese poiché è uno dei centri più popolosi della Val d’Agri e, come tutte le zone interne, non risente nemmeno dell’invasione turca del 1533.
All’inizio del 1500 viene edificata la Cappella sul S. Monte, destinata ad accogliere la statua lignea della Madonna nera.
Intorno al 1560 vengono edificate le Chiese di S. Benedetto, S. Antonio Abate e S. Nicola.
Nella memoria del De Sangro si narra che la statua fu portata sul monte la prima volta nel 1566, data plausibile delle prime processioni, essendo le fabbriche del santuario non anteriori al secolo XVI.
Nel 1594, secondo quanto riportato in una delle relationes ad limina del vescovo Antonio Fera, sono presenti le confraternite del Santissimo Rosario e del Santissimo Sacramento; inoltre si parla di un ospedale che si sosteneva con le sue rendite ed elemosine, dotato di tutto il necessario ed era servito da tutto il clero del paese[5].
La prosperità determina, in questo periodo, un notevole incremento demografico.
Nel 1630 Luigi Dentice è costretto a vendere il feudo a Giovanni Battista Sangro, che ottiene, nel 1638, il titolo di Principe di Viggiano.
Terra di Bari et Basilicata – dall’Atlante del Magini, Bologna, 1620
Il paese continua a prosperaree ne è prova il continuo aumento demografico: si passa dai 578 fuochi del 1590 ai 695 del 1648, fino a raggiungere, nel 1736, 4322 abitanti.
Il malcontento nei confronti della dura reggenza spagnola si manifesta in numerose ribellioni, fra cui quella del 1647, alla quale partecipa anche Viggiano.
Nel 1672 una carestia seguita da un disastroso terremoto riducono il paese in cattive condizioni.
Le relationes ad limina del vescovo Pinerio riportano l’entità del patrimonio del clero: esistono in totale, in questo periodo, 20 chiese, di cui 9 in paese e 11 extra muros, mentre viene ridotta l’attività degli ospedali e degli ordini assistenziali.
Le notizie che si hanno del paese, sempre del 1600, sono legate al nome di due medici: Ferdinando Cassano, autore delle Questiones medicae edite a Venezia nel 1564, e Giambattista Verri.
Nel sec. XVIII costituiscono testimonianza le relazioni del Gaudioso del 1735 e il Murat [6].
Relativamente al paese, il Gaudioso[7] parla di una popolazione di 4000 abitanti, pochi dei quali si mantengono col ritratto dei loro averi, poiché gli altri tutti si sostengono colle fatiche personali nel coltivar il terreno, anche in alieni paesi. Detta terra sta sotto il baronaggio dell’illustre principe di Viggiano Giambattista Sangro. Vi è la Chiesa Parrocchiale (S. Pietro), come pure l’Abbazia detta di S. Maria della Giustizia. Vi è finalmente il Convento di S. Maria della Nova dei PP. Minori di S. Francesco, che vivono di elemosina.
Anche questo, è un periodo di prosperità.
Carlo III di Borbone, intanto, innesca un processo volto a ridurre il potere dei feudatari, aumentato a dismisura.
Nel 1759 il paese è in rivolta contro il proprio feudatario e, nel 1798, contro gli stessi borbonici, divenendo, durante la proclamazione della Repubblica Partenopea, luogo democratico.
Terra di Bari et Basilicata – Antonio Zatta, Venezia, 1783
Il 1789, anno della Rivoluzione Francese, dà il segnale dell’emancipazione dei popoli, oppressi da lunghe tirannidi e delle libertà costituzionali. L’eco degli avvenimenti francesi si fa sentire anche al Sud.
Nel 1799 un gruppo di intellettuali scalza i Borboni dal trono di Napoli e instaura la Repubblica napoletana. In seguito al trattato di Vienna i francesi rimettono sul trono i Borboni.
Viggiano si oppone per alcuni giorni, ma i francesi insorgono e, per far pagare la resistenza, fucilano 57 uomini.
Le notizie di questo periodo si devono a Lorenzo Giustiniani[8], bibliotecario del re Ferdinando I, il quale scrive nel 1797: il territorio è molto ben coltivato e specialmente le vigne.
Invece l’Antonini[9]: sono da quei contadini tenute con tal proprietà che fanno invidia a quelle di Toscana. Vi si raccoglie del frumento, legumi, olio. Oltre all’agricoltura esercitano pur anche la pastorizia. Non vi manca la caccia di lepri, volpi e di più specie di pennuti. A non molta distanza, tiene l’Aciri o Acri, che dà del pesce. In questo paese vi è molto commercio con altre popolazioni delle province e fuori ancora. Vi si vede un ospedale ed hanno due monti frumentari. I viggianesi sono per lo più suonatori di arpa e taluni avrebbero molta abilità se fossero istruiti nella scienza della musica.
Viggiano, intanto, viene portato in dote dall’unica erede della famiglia Sangro, Francesca, al proprio sposo Francesco Loffredo, conte di Potenza. Da lui il feudo passa alla famiglia Sanfelice di Monteforte che ne mantiene il possesso fino al 1806, anno in cui, emanate da Napoleone le leggi eversive della feudalità, si conclude la storia del paese come feudo, iniziata con i Romani.
Sempre nel 1806, viene domata un’insurrezione contro i francesi e vengono eseguite alcune fucilazioni nei pressi della cappella di S. Lucia.
Scrive B. La Padula[10]: le fucilazioni del 17 e 22 agosto 1806 in Viggiano fra il Paschiero e il muro destro del Convento furono una di quelle viltà che la storia comporta con sé, quando l’anima ne è così presa che dimentica il distinguere il bene dal male. E quante di queste viltà accompagnano la storia della rivoluzione francese! Ma nel caso di Viggiano si aggiungono le antiche radici di rivalità di parte e di individui: il fatto storico è invilito dal malo odore che emanavano concittadini che si scagliavano e si accusavano, e cadevano nella fornace degli odi e delle viltà…
Nel 1807 un altro terremoto danneggia il paese.
Nel 1809 Napoleone emana la legge che sopprime tutti gli ordini religiosi possidenti.
Viggiano prende parte all’attività della rinata monarchia borbonica; è tra i primi paesi ad applicare la legge del 1816 la quale sancisce che ogni Comune deve dotarsi di un regolamento di polizia urbana e rurale. In questo periodo si gode di una discreta situazione finanziaria; la popolazione va dai 5700 abitanti del 1805, ai 6634 del 1857.
Nel 1884 il poeta Giovanni Pascoli, venuto qui quale commissario d’esame, in contatto epistolare con Giosuè Carducci, non manca di sottolineare, come il paese risuonasse continuamente di suoni d’arpa, tanto da paragonarlo ad Antissa, il paese greco famoso per i suoi suonatori di cetra.
Ne sono testimonianza il monumento di ingresso al paese nonché le effigi scolpite sulle chiavi di volta dei portali più antichi, ancora esistenti.
Bibliografia e riferimenti:
[1] T. Pedio, La Basilicata Longobarda, Potenza, 1987, p. 108
[2] F. P. Caputi, op. cit.
[3] La parrocchia di Caggiano è S. Maria dei Greci.
[4] G. Racioppi, Origini storiche investigate nei nomi geografici della Basilicata, Napoli, 1876, p. 485
[5] N. Ramagli, op. cit.
[6] Statistica del Regno di Napoli, 1811
[7] R. M. Gaudioso, Descrizione della provincia di Basilicata, 1736
[8] L. Giustiniani, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, Napoli, 1797-1805, Tomo X, p. 61
[9] G. Antonini, Discorsi. La Lucania, Napoli, 1745, p. 513
[10] B. La Padula, Viggiano e la sua Madonna. Indagine storico-illustrativa, Potenza, 1968
Archeologia nel territorio di Viggiano
I più recenti rinvenimenti archeologici effettuati nel Comune di Viggiano sono conseguenti alla realizzazione dell'oleodotto ENI Viggiano-Taranto e della Rete di raccolta del petrolio, che collega i singoli pozzi con il Centro Oli di Viggiano, i cui lavori sono tuttora in corso.
L'oleodotto ha attraversato, per circa 100 Km., la Basilicata, interessando aree archeologiche di straordinaria importanza e, in primo luogo, i territori occupati dalla colonia greca di Metaponto, dalle comunità italiche della Val d'Agri e dalla città romana di Grumento.
Lungo il tracciato sono state individuati oltre centocinquanta siti archeologici, in precedenza non conosciuti e che, nel corso dei lavori, sono stati oggetto di ricerche archeologiche preventive.
La Preistoria
In antico, il fiume Agri era noto con la denominazione Akiris e, nel suo tratto finale, era navigabile, come riportato in un noto passo di Strabone (VI,1,14), assumendo un importante ruolo nei collegamenti tra Ionio e Tirreno.
I rinvenimenti effettuati a seguito dei lavori Eni costituiscono una premessa di quelle che sono le potenzialità archeologiche di un territorio che fino a questo momento ha risentito della realtà macroscopica del centro romano di Grumentum.
L'Oleodotto ha interessato, in primo luogo, il versante sinistro dell'alto corso dell'Agri, consentendo di chiarire il popolamento antico lungo la riva sinistra del fiume, opposta a quella su cui in età romana sorge Grumentum.
Per quanto riguarda la fase preistorica, un esteso insediamento inquadrabile nelle fasi finali del Neolitico Recente (facies Diana-Bellavista) ossia nella seconda metà del IV millennio a.C., cui si riferiscono una capanna e un livello di frequentazione, in località Porcili di Viggiano, in un'area pianeggiante posta a sud dell'altura su cui sorge il paese moderno e lambita dal torrente Alli.
Si sviluppano i primi insediamenti stabili costituiti da ampi villaggi di capanne circondati da fossati.
La capanna individuata è di notevoli dimensioni, il cui perimetro è definito da buche per pali con numerose zeppe in pietra.
L'esteso livello di frequentazione ha restituito numerose fosse di combustione a pianta rettangolare, utilizzate per la cottura di grandi porzioni di animale, per l'essiccazione di pesce o di carne, per la fumigazione di scorte alimentari e per la tostatura dei cereali.
Un'area sepolcrale, individuata sempre nella località Porcili di Viggiano (a circa 500 m. dalla precedente), si imposta direttamente sul livello neolitico e ha restituito numerose sepolture con oggetti di corredo inquadrabili, ad un'analisi preliminare, agli inizi dell'età del Bronzo.
La necropoli si sviluppa in un'area pianeggiante, probabilmente lungo un antico tratturo. Si tratta di una serie di piccoli tumuli costituiti da pietre, che si dispongono a semicerchio intorno ad una sepoltura maschile ricoperta da tumulo di terra.
Le altre sepolture sono pertinenti alcune sicuramente a defunti di sesso femminile, come testimonia una parure costituita da un applique in osso decorato a cerchi concentrici e da vaghi in osso e pietra.
Un'altra tomba ha restituito, quali elementi di corredo, due attingitoi monoansati e una scodella .
Lo scavo in località Masseria Maglianese, nel comune di Viggiano, ha permesso di individuare un altro insediamento abitativo appartenente alla fine del Bronzo Antico-inizi del Bronzo Medio.
In particolare è stata individuata la parte meridionale di una capanna (Fig. 2), probabilmente una struttura comunitaria, di impianto non stabile, da connettere forse agli spostamenti dovuti alla transumanza del bestiame.
Interessante notare che, pur non essendo un impianto stabile, era comunque caratterizzata da un'organizzazione funzionale sia dello spazio interno, come la zona orientale della capanna con i grandi contenitori interrati sembrerebbe suggerire, sia di quello esterno con la presenza di un focolare e di zone di scarico di materiale.
All'interno della capanna sembra possibile riscontrare una divisione funzionale degli spazi con la zona orientale destinata alla conservazione delle derrate.
A sud-ovest del grande contenitore vi era poi una buca certamente connessa alla sistemazione della zona orientale della capanna, usata probabilmente per conservare materiale deperibile funzionale alla vita della struttura abitativa.
All'esterno della capanna sono stati ritrovati degli accumuli di materiale ceramico in buche non molto profonde, da interpretare come scarichi, e un focolare a cielo aperto. Da uno di questi scarichi di materiale proviene una fuseruola, a testimoniate l'attività di filatura in questa capanna.
Siti archeologici nel territorio di Viggiano
L'età classica: insediamenti e necropoli lucane Le indagini condotte in alta Val d'Agri hanno soprattutto posto in evidenza quanto il territorio interessato dalla fondazione di Grumentum fosse densamente occupato al momento dell'avvio della politica espansionistica dei Romani per quest'area dell'Italia meridionale. Una fitta rete di fattorie si sviluppa, a partire dalla metà del IV secolo a.C., sulle alture che dominano la vallata fluviale e i diversi tratturi di collegamento, su entrambi i versanti dell'Agri. Si tratta di piccoli insediamenti da ricollegare a uno sfruttamento intensivo del territorio, con l'impianto di colture specializzate, come la vite e l'olivo. In particolare, le ricerche condotte a seguito dei lavori Eni hanno permesso di individuare sia alcune di queste fattorie sia gruppi di sepolture pertinenti a tali impianti agricoli. Resti di fattorie sono stati scavati nelle località Serrone di Viggiano, su un'altura posta a controllo di un ampio tratto della valle e di un sistema di tratturi ancora oggi in uso. E' nota una prima fattoria che occupa una superficie complessiva di 750 mq e conosce almeno tre fasi costruttive databili tra la metà del IV e il corso del III secolo a.C. L' impianto si articola con una serie di vani aperti su un cortile. La terza fase conosce una profonda trasformazione, con un prevalere delle attività produttive su quelle residenziali. Infatti, nel cortile si impianta un forno. A circa 100 metri sorge un secondo edificio, di 240 mq, a carattere rurale con pianta ad "L" e costituito da un lungo e stretto ambiente ortogonale ad altri di minori dimensioni. Esso ha restituito una lucerna in bronzo. Ad un edificio monumentale di età lucana si riferiscono i resti scavati in località Masseria Nigro di Viggiano. Collocata sul versante sinistro della valle del fiume Agri, in posizione simmetrica a quella dell'antico abitato di Grumentum, la struttura si sviluppa su un vasto pianoro delimitato da solchi vallivi e dominante una fitta rete di tratturi di collegamento tra Viggiano e Montemurro e percorsi di attraversamento verso la sponda sinistra del fiume Agri. Si tratta di un complesso dalle dimensioni davvero imponenti, di circa mq. 1360 (tra area esplorata e area individuata attraverso saggi esplorativi e indagini geofisiche) che, sulla base delle ricerche geofisiche effettuate in tutta la zona circostante, appare isolato. La prima fase, databile alla prima metà del IV secolo a.C., sembra essere caratterizzata, da ambienti con una serie di fosse che si dispongono secondo precisi allineamenti. In particolare, due di queste fosse contengono vasi per olii e unguenti e piatti per offerte di semi e di cibi solidi. Tutte le fosse sembrano rimandare ai sacrifici non cruenti noti nel mondo greco, spesso accompagnati da dolci e frutti, e celebrati di consueto nei culti domestici. La seconda fase, da collocare nel corso della seconda metà del IV secolo a.C., vede la realizzazione di un grande edificio, con cortile lastricato centrale e una serie di vani disposti lungo tre lati. Accanto sono un pozzo monumentale e una fornace per la produzione di tegole e vasellame. Particolarmente significativo è il vano con un monumentale focolare che, al momento dell'abbandono dell'edificio viene "sacralizzato" dalla offerta del sacrificio di un capro (di cui si sono rinvenute le corna e resti del cranio). Si tratta dunque di un sacrificio cruento che sancisce l'abbandono dell'edificio, utilizzato non solo in funzione abitativa, ma anche come luogo di riunione delle aristocrazie guerriere lucane, in un momento particolarmente delicato per l'intero territorio segnato dalle prime presenze romane. L'edificio viene abbandonato nel corso del III secolo a.C. in concomitanza con l'affermarsi della potere romano nell'area e forse anche con gli avvenimenti tumultuosi riconducibili alle guerre pirriche, che vedono, nel corso del primo venticinquennio del III sec. a.C., i Lucani alleati di Taranto e di Pirro contro Roma. Ad un ampio villaggio di bassa collina, da localizzare probabilmente tra le località La Monaca e Castelluccio, è infatti riferibile la estesa necropoli individuata in località Catacombelle di Viggiano, che ha restituito, nella sola trincea di scavo Eni, circa un centinaio di sepolture a fossa semplice, a cassa di tegole, con copertura piana o a tetto a doppio spiovente in tegole piane e coppi. Il rituale funerario, secondo il rito proprio delle genti lucane, prevede l'inumazione supina, ma accanto a questo va segnalata anche la presenza del cerimoniale dell'incinerazione, distinto in due diverse tipologie: il rituale della cremazione diretta, (bustum), che prevedeva la cremazione del defunto direttamente all'interno della fossa, il rituale della cremazione indiretta (ustrinum), dove le ossa venivano trasferite nella tomba solo dopo la cremazione del defunto avvenuta su di una apposita pira. La necropoli, le cui prime fasi di uso si collocano nel corso del secondo quarto del IV secolo a.C., si organizza in due settori, separati da uno spazio lungo circa 200 metri lasciato intenzionalmente libero e riferibili a due differenti gruppi parentelari. In base all'analisi della stratigrafia orizzontale sembra si possa individuare una disposizione nello spazio per nuclei di circa cinque-sei tombe, attorno ad una di maggior rilievo, sia per monumentalità che per ricchezza di corredo. La relazione topografica tra le diverse sepolture potrebbe rispettare vincoli di tipo familiare e privilegiare la sepoltura del capofamiglia. Gli spazi vuoti tra i vari nuclei sono forse destinati a scopi rituali. Tale ipotesi, in alcuni casi, è suffragata dal rinvenimento di deposizioni rituali di vasi miniaturistici per versare e per contenere/bere, deposti entro piccole fosse coperte da una tegola piana. Le sepolture più ricche, ubicate nella parte centrale della necropoli, sono pertinenti a defunti di sesso maschile. Lo status di guerriero è enfatizzato dalla presenza di più esemplari di cinturoni, di cui quello personale indossato e gli altri, probabili bottino di guerra, disposti lungo il corpo o, in un solo caso, appesi alle pareti della tomba. Spicca la presenza, sempre nelle stesse sepolture maschili, di un servizio rituale in bronzo costituito dal bacile con ansa mobile associato ad una coppia funzionale di forme utilizzate per versare e per bere (epichysis/olpe - kantharos). E' presente, tra l'altro, lo strumentario in piombo per il banchetto con le carni arrostite (alari, spiedi, graticola) associato spesso al candelabro, che allude probabilmente al simposio notturno, nell'oscurità degli Inferi. Il corredo ceramico, in questi casi, si compone di uno o più servizi da mensa. Si tratta dunque di vasi per contenere liquidi (anfore o nestorides), forme per bere (skyphoi) e per versare (oinochoai), vasi per contenere piccole porzioni di cibo (patere). Le coppette miniaturistiche erano forse utilizzate a scopo propriamente rituale per contenere offerte di semi. I servizi in ceramica attestati nelle sepolture femminili sono meno articolati rispetto a quelli maschili e contraddisti dalla presenza della lekythos, della lekane e dell'hydria, vasi utilizzati per la toeletta e per l'acqua, connotanti il sesso femminile. A tale proposito, si nota una frequenza costante di forme legate alla cura del corpo, per contenere olii profumati. Il lebes gamikos, contrariamente a quanto riscontrato in altre necropoli lucane (cfr. Poseidonia, Tortora, Sant'Arcangelo), è attestato sia in sepolture femminili sia in quelle maschili. Sembra dunque che tale forma possa, in questo caso, indicare una classe di età, quella giovanile, piuttosto che il sesso del defunto. Le sepolture infantili si distinguono per la presenza di forme miniaturizzate; in un caso, si segnala la deposizione di una statuetta femminile seduta con acconciatura ad alto nodo, del tipo attestato nella necropoli di Sant'Arcangelo - San Brancato. Il vasellame a figure rosse è di produzione lucana, realizzato nelle botteghe dei Pittori di Napoli 1959, di Haken, dell'apulizzante Pittore della Foglia d'Edera, considerate da A.D. Trendall campane, ma che alla luce dei più recenti scavi sono da localizzare in Lucania tra la Val d'Agri, il vallo di Diano e le valli del Noce e del Lao. Un altro cospicuo gruppo di ceramiche figurate è ascrivibile alla cerchia del Pittore di Roccanova, anch'esso attivo tra le valli dell'Agri e del Sinni. Una fitta rete di fattorie si sviluppa, a partire dalla metà del IV secolo a.C., sulle alture che dominano la vallata fluviale e i diversi tratturi di collegamento, su entrambi i versanti dell'Agri. Si tratta di piccoli insediamenti da ricollegare a uno sfruttamento intensivo del territorio, con l'impianto di colture specializzate, come la vite e l'olivo. In particolare, le ricerche condotte a seguito dei lavori Eni hanno permesso di individuare sia alcune di queste fattorie sia gruppi di sepolture pertinenti a tali impianti agricoli. La valle dell'Agri è caratterizzata infatti, nel suo tratto superiore, da un'ampia e fertile pianura, mentre nel tratto medio del fiume si restringe in una stretta gola con pareti impervie e, infine, nel tratto finale, si allarga e, all'altezza di Tursi, si estende in una piana molto sfruttata dal punto di vista agricolo. Così come la conformazione attuale rispecchia quella antica, almeno lungo la fascia costiera, anche le colture odierne sembrano fondamentalmente ricalcare quelle antiche, descritte nelle note tavole di Herakleia, atto pubblico databile tra la fine del IV e gli inizi del III sec. a. C. Il prezioso documento fornisce informazioni circa la viabilità del territorio, la reddività dei terreni e delle colture, soprattutto viticoltura e olivicoltura, nella pianura lambita dal tratto finale dell'Agri. La fertilità dei terreni lungo il corso d'acqua e la facile percorribilità della vallata sono infatti i presupposti indispensabili per lo sviluppo di stabili insediamenti sulle colline circostanti. Notevole incidenza doveva inoltre rivestire la pratica dell'allevamento dei caprovini, tipico della grande transumanza e legato a spostamenti di medio e, in alcuni casi, di lungo raggio con le più lontane pianure costiere per la utilizzazione stagionale dei pascoli. L'allevamento del bestiame forniva, da un lato, sostentamento alimentare e, dall'altro, lana, pelli, cuoio per la manifattura delle vesti e per l'armamento. Ad una ricca fattoria è riferibile infatti la piccola necropoli rinvenuta in località Valloni di Viggiano, che, accanto agli altri sepolcreti scavati in passato lungo il tracciato di un antico tratturo ripercorso dalla strada moderna Viggiano - Montemurro (Fosso Concetta e Vracalicchio), si inserisce nella serie di impianti agricoli collocati sulla dorsale collinare che si affaccia sulla sponda sinistra del fiume Agri. La necropoli si organizza in tre differenti gruppi di sepolture, a fossa terragna, intervallati da ampi spazi lasciati liberi. Il nucleo centrale, il più importante e più ricco, presenta le sepolture femminili separate da una fascia di rispetto da quelle maschili poste più a monte; i due nuclei periferici, distanti circa 50 metri da quello centrale, sono rappresentati, ciascuno, da una coppia di sepolture con corredi più poveri, privi di metalli. Si tratta di un unico gruppo familiare che utilizza l'area sepolcrale per tre generazioni; probabilmente gli individui sepolti a distanza dal nucleo principale sono collocati in una posizione marginale nella gerarchia della comunità di appartenenza. Tutti i defunti sono deposti in posizione supina entro casse lignee, di cui restano i chiodi in ferro e cospicue tracce di materiale decomposto, con il corredo solitamente collocato ai piedi e lungo il fianco destro del corpo. La diversa collocazione nella fossa degli oggetti di corredo sottolinea la differenza funzionale tra le varie categorie di materiali. E' possibile così distinguere il servizio da mensa da quello per contenere olii di purificazione del corpo; il cratere, vaso connesso con il consumo del vino, assume in alcuni casi la funzione di vaso rituale, quando reca, poggiato sull'orlo, il coltello per il taglio delle carni. Gli strumenti da fuoco, infine, sono funzionali all'immaginario oltremondano del banchetto con le carni arrostite, fortemente caricato di valori cerimoniali, come attesta anche l'iterazione di alcune forme del servizio vascolare (coppette e patere). La nestoris contraddistingue le due sepolture più ricche, l'una maschile e l'altra femminile. Così come nella necropoli di località Catacombelle, gli individui di sesso maschile sono connotati come guerrieri dalla costante presenza del cinturone in bronzo, mentre non sono mai attestate armi da offesa. In un caso, il guerriero reca sul capo una corona in argento con foglie di alloro, che simboleggia la vittoria negli agoni atletici e sul campo di battaglia e il conseguente processo di eroizzazione. Le sepolture femminili presentano vasi legati alla toeletta e alla cura del corpo (lekythos). L'hydria, vaso per il trasporto dell'acqua, attestato in soli due casi, connota la donna adulta, nella sua funzione di signora della casa. I valori dell'oikos (casa), cellula-base dell'organizzazione della società rurale lucana, sono rappresentati, tra l'altro, dagli strumenti da fuoco, alari, spiedi e candelabro in piombo, che, oltre a fare riferimento al banchetto, simboleggiano il focolare domestico. Ai prodotti dell'agricoltura e dell'allevamento e, di conseguenza, alla prosperità della casa si riferiscono le riproduzioni in terracotta di frutti (melagrane, uva, fichi, mandorle), di favi, di focacce e di formaggi rinvenute in sepolture di Viggiano e di Montemurro. Anche in questo caso, la ceramica a figure rosse presente nelle sepolture di Valloni, così come nelle altre necropoli dell'alta Val d'Agri, è relativa a botteghe di vasai, le cui produzioni sono diffuse in Val d'Agri, nella valle del Noce e nel Vallo di Diano. L'età della romanizzazione Alla fine del IV secolo a.C. Roma avvia in quest'area dell'Italia meridionale una politica di alleanze con quelle frange dell'oligarchia indigena ad essa favorevoli. In questa prospettiva si inserisce la fondazione del centro di Grumentum, sorto, sulla base delle testimonianze archeologiche, agli inizi del III secolo a.C. su una collina alla confluenza tra il torrente Sciaura e l'Agri. Il centro di Grumentum costituisce pertanto un polo di attrazione delle genti precedentemente sparse nel territorio in ampi villaggi e in fattorie. Alla città infatti faceva capo un ampio territorio attraversato da due importanti vie pubbliche a lunga percorrenza, che si incrociavano davanti ad una delle porte della città: la via Herculia e la strada che conduceva a Nerulum, dove si collegava alla via Popilia (Capua-Regium). La campagna intorno alla città era sfruttata in modo intensivo, con la presenza di piccoli villaggi, fattorie e ville; il territorio della città viene interessato da una centuriazione in età graccana, con assegnazioni di ager publicus in base alla lex Sempronia agraria, di cui resta notizia nel Liber Coloniarum (I, 209 L). Alla fase di II secolo a.C. risale infatti una serie di impianti rurali rinvenuti nei territori di Viggiano e Grumento Nova. Le indagini condotte in località San Giovanni di Viggiano hanno consentito di mettere in luce una fattoria, che riproduce la planimetria di una domus romana. Il cortile centrale porticato è pavimentato in spicatum con ciottoli di fiume. Un'ulteriore importante trasformazione si attua alla seconda metà II sec. a.C.-inizi I sec. a. C. L' edificio viene ristrutturato e destinato quasi esclusivamente ad attività produttive, in particolare alla lavorazione delle olive, con vani pavimentati in cocciopesto. L'occupazione diffusa del territorio di Grumentum, con lo sviluppo di impianti rurali legati alla piccola e media proprietà destinati probabilmente alle colture della vite e dell'olivo, sembra conoscere una recessione a partire dalla prima età imperiale, quando vengono realizzate poche grandi villae, da riconnettere con proprietà terriere molto più estese di quelle attestate in età repubblicana. La documentazione epigrafica infatti riporta i nomi di ricche famiglie lucane che possedevano latifondi. In località Castelluccio di Viggiano è stato individuata la pars rustica di una villa che ha restituito una moneta di Bruttia Crispina, della famiglia lucana dei Bruttii Praesentes, moglie di Commodo (II sec. d.C.), che portò in dote all'imperatore numerosi latifondi lucani di proprietà della sua famiglia. L'età romana imperiale Al periodo romano tardo-imperiale risalgono i resti di parte del quartiere residenziale di una grande villa databile tra III e IV secolo a.C., individuata in località Maiorano di Viggiano, a circa 800 m. di altitudine, presso una importante strada che collegava la valle dell'Agri alla Basilicata interna [1]. Si tratta, in particolare, di una struttura rettangolare con abside al centro del lato lungo orientale. Un ambiente scoperto, in asse con l'abside e dotato di fontana centrale alimentata da un lungo canale in piombo alloggiato in una canaletta, funge da raccordo tra i due ambienti meridionali e i due settentrionali. Tutti gli ambienti si aprono su uno stretto e lungo portico. Oltre ai pavimenti musivi policromi, alcuni ambienti, come quello absidato, doveva essere dotato di mosaici parietali in pasta vitrea, di cui è rimasta qualche tessera. La particolare ricchezza delle decorazioni e la planimetria della struttura inducono a ritenere che si debba trattare di una coenatio di una residenza di notevole livello architettonico. La planimetria trova confronto con la coenatio della villa di Malvaccaro di Potenza. La villa doveva essere collegata ad una vasta tenuta, costituita da parti coltivate e zone destinate al pascolo, territori lasciati incolti con boscaglia per la caccia del signore - dominus, cui fanno pensare i costumi dell'epoca e i ricchi mosaici con scene di caccia, propri delle ville coeve rinvenute in Sicilia e in Africa. E' questo un periodo di particolare floridezza per la Val d'Agri, anche perché che Diocleziano e Massimiano Erculio, alla fine del III secolo d.C., sistemano la via Herculia che attraversa il territorio di Grumentum per giungere alla costa ionica. La città, nello stesso periodo, è interessata da interventi di restauro che coinvolgono sia edifici privati (domus) che pubblici (terme). Tra Tardo Antico e Alto Medievo In età tardo-antica - alto-medioevale si verificano profonde trasformazioni che coinvolgono anche la Valle dell'Agri. Probabilmente alla fine del IV secolo d.C. Grumentum diventa sede episcopale, una delle più antiche d'Italia. Dall'Anonimo Ravennate (geografo dell' VIII sec. d.C.) e da Guidone (monaco del XII sec. d.C.) sappiamo che il territorio di Grumentum era talmente esteso, da confinare con quello di Taranto. Tra il V e il VI secolo d.C. si registra il lento abbandono della città, con le prime deposizioni funerarie all'interno delle mura cittadine, che indiziano la presenza di un sistema insediativo organizzato per nuclei sparsi. Si conoscono infatti piccoli sepolcreti nella zona dell'anfiteatro e delle c.d. terme imperiali e nei pressi dei ruderi della chiesa di San Marco, all'esterno del perimetro urbano e il ristretto nucleo di sepolture in località Catacombelle di Viggiano. Al VI-VII secolo d.C. risale il sepolcreto individuato in località Valloni San Pietro di Viggiano. Sono state scavate due sepolture e altrettanti ossari, in prossimità di un rudere di età moderna che ha in parte sconvolto la più antica necropoli. Una sepoltura ha restituito due inumazioni di individui adulti. Ad un primo inumato è forse possibile attribuire un pettine di osso con chiodini di ferro ritrovato "schiacciato" lungo la parete orientale. Ad un secondo individuo, deposto ad un livello superiore e in posizione supina, sono riferibili due orecchini di filo di bronzo a sezione quadrangolare ed estremità a ganci contrapposti con vaghi di pasta vitrea. E' probabile che, come nel caso sopra citato di San Marco, il piccolo sepolcreto sia riferibile ad un complesso ecclesiale di cui è rimasta memoria nel toponimo dell'area "Valloni San Pietro". Fonte: Alfonsina Russo - Soprintendenza per i Beni Archeologici della Basilicata ________________________ [1] Il complesso è collocato in prossimità di un importante asse viario antico che, provenendo da Potenza-Anzi, attraversa trasversalmente l’alta valle dell’Agri. Si tratta di un percorso alternativo alla via Herculia, importante via publica romana che collegava Venusia a Potentia e a Grumentum, attraverso Marsico Nuovo, per proseguire successivamente fino alla costa ionica: R. J. Buck, “The Via Herculia”, in BSR, XXXIX, 1971, pp. 66 – 87; L. Giardino, “La viabilità nel territorio di Grumentum in età repubblicana e imperiale”, in Studi in onore di Dinu Adamesteanu, Galatina 1983, pp.195-217. |
Prisca villa di Vettio agli ozi cara, prima distesa al pian, poi sulla vetta; più fortunata, o bella montanara, ché alla Vergine bruna sei diletta: dalle tue sommità miri, lontano, nel sol giganteggiar monte su monte. Ai piedi tuoi vario e giocondo è il piano. Mormora l’acqua del Casale al ponte. Di mandorli sei lieta a primavera. A te il lento Agri[1] nebbia vaga estolle…
Con questi versi salutai, la patria della mia adolescenza e della mia giovinezza: Viggiano, tutta distesa a mezzodì, ariosa e luminosa, sopra i mille metri di altitudine, con saluberrimo clima, fresco d’estate, fresco asciutto d’inverno.[2]
Il nome Viggiano, deriva, secondo alcuni, dal verbo greco izano, io sosto; in antiche carte ricorre il nome di Bizano e in altre Viziano; altri ne attribuiscono l’origine alla civiltà romana, dal nome proprio latino Vibius.
Secondo il Flecchia[3], prende nome dal gentilizio romano Vibius o Vejus come Vejanum o Vibianum praedium o da Vettius, probabilmente da un Vettianum o Vectianum praedium, ossia villa, podere di un Vettius e i Vettii, erano oltre che a Pompei, anche a Grumentum, a cui sembra appartenesse come pagus.
Fra le iscrizioni antiche di Potenza, una è dedicata ad un Vibio Flacco[4]; di un Vibius si parla in un’altra di Grumento; trasformandosi la b in g, come da Fobea deriva Foggia e da Fobeanum Foggiano, così da Vibbianum deriva Viggiano.
Tale latifondo, villa o vicus, assumerà il nome della famiglia del signore. Così da Vibius, presumibilmente un Vibio Flacco, si ha la denominazione di Vibianus pagus, riferito non solo all’abitato, ma a tutto il latifondo e che si trasformerà in seguito in Bizano e finalmente nell’attuale Viggiano.
Il nome Viggiano potrebbe, in seguito, scaturire da una divinizzazione del proprietario di suddetta villa e quindi da vecta jani o vide janum.
Derivando l’etimologia di Cajano da Cajus, della tribù Pomptina, Cajanus, l’antico nome del pago, fu un predio, un fondo, una villa di Caio, così come Gabiniano, predio, fondo, villa di Gabinio o Zabinio, secondo un graffito di Pompei. Se Trebbiano deriva da Trebius, Fabiano da Fabius, Caggiano da Cajus, allo stesso modo, Viggiano deriverebbe da Vejus o Vibius.
In antiche carte Viggiano è Viziano[5]: quindi il nome deriverebbe da Vettius o Vectius e la famiglia Vezziana fiorì nella città di Grumento. Nei suoi marmi si legge: Vettia Cn. L. Philelma … Cn. Vettius…[6]
Ai tempi della repubblica Caio Vezzio della tribù Pomptina costruì il portico di Grumento, con pecunia paganica, probabilmente danaro ricavato dai fondi rustici, come si legge in un’epigrafe. Negli scavi di Pompei, si trova la ricca casa di un Vezzio.
Del resto il nome di Viggiano, benché possa legittimamente nascere da un Vibius o da un Vejus-Veianus, conservato in forma latina, nessun ricordo lapidario, nessuna traccia si ebbe mai di essi, mentre depone in favore dell’altro una Vezzia di Gneo Lucio Filelma, Gneo e Caio Vezzio[7].
I nomi locali che terminano con il suffisso iano appartennero a qualcuno, come indicanti proprietà fondiarie di antiche famiglie italiche che divennero paesi, dalle prime case dei coltivatori del feudo. Satriano, Aliano, Viggiano, Stigliano, fanno risalire l’origine al nome del signore che aveva il predio fin dai tempi dell’impero. Una tale forma di aggettivo, che indicava appartenenza alla famiglia Ostilia, Albia, Balbia, Vibia, nacque dopo le invasioni barbariche ed erano i nomi delle ville rustiche, cresciute in paghi, probabilmente anche prima dei barbari.
Fabiano, Vaiano, Viggiano, sono nomi di ville formate alla maniera dei latini e con un finale iano (janus), aggiunto al nome del padrone, formavano quello dei loro possessi, i quali diventarono più popolati dopo di ché, molti Romani, ai quali erano rimasti pochi averi, abbandonarono le città e si ridussero nei loro fondi con gli schiavi e i coloni che li coltivavano, fino a quando non vennero ad occupare i loro campi le orde barbariche[8].
La località, in epoca pre-romana, era un punto di sosta per quei greci che dalla costa ionica andavano verso la costa tirrenica o viceversa. Non rari sono i ritrovamenti di tombe greche risalenti al VI secolo a.C.
La storia, comincia a parlare di Grumentum in occasione delle guerre puniche, per le battaglie tra romani e cartaginesi. Dalla stessa Grumentum, prima come villa di una famiglia gentilizia Vibianum o Vectianum praedium, poi come comunità più estesa, trasformandosi in pagus ha origine il paese i cui abitanti, come quelli di Grumentum e di numerosi altri paghi , crearono un insediamento abitativo sulla corona montana per sottrarsi alle continue incursioni dei saraceni (X sec.). .
Il paese nasce, quindi, in epoca romana, come pagus di Grumentum, che è un oppidum romano.
Il Racioppi[9] così descrive il pagus: dominava nell’assetto della proprietà la forma del latifondo, massime sotto l’impero, sul quale, coltivato da schiavi, poi da servi e da coloni, è d’uopo esistano qui e qua le capanne dei coltivatori, le case del villico, le stanze del signore, quelle delle Scorte. Ecco il nucleo di una villa. Tre, o quattro, o più di queste ville formano un vicus, e da vichi più grandi il pagus.
Il Caputi, sostiene molto apertamente le tesi vettiana, dando scarso rilievo sia a quella vibiana che alla vejana e precisa che:
Grumento non mancò di ville. Una alquanto lungi riusciva ad austro del monte, che giganteggia su di un ampio territorio in complesso Vectianum praedium; e, degradando dal braccio orientale, torce verso il piano quasi a zampa di cavallo, sede originaria di un nucleo di popolo, appellata in tempi medievali Marcina, Cotura, Mattina…Importanti ruderi scoperti ne’ dintorni e non meno importanti oggetti che mise fuori la marra, avvalorano la tradizione nell’ammettere il prisco Viggiano in tal luogo di luce giocondo di casine, a tre miglia da dov’è oggi il paese[10].
Il Caputi[11] scrive che una villa di Vectianum, sorgeva proprio ai piedi del Monte di Viggiano. A supporto di questa tesi, sono state ritrovate, in suddetta zona, due stanze una ottagonale e l’altra circolare, ricche di mosaici ed affreschi.
Cavandosi, scrive Zigarelli[12], si rinvengono dei tumoli, condotti sotterranei di piombo, pezzi di marmo bianco, capitelli di colonne, suggelli di bronzo, vasi antichi, lapidi corrose dal tempo, monete greche e partenopee; tutto nel suo insieme addita che una città di riguardo vi si ergea; ma quale si fosse, è difficile nella tenebria dei secoli definirla. Gli eruditi si sono affaticati per raccogliere contraddizioni tra loro.
Sono state ritrovate due lapidi e i resti di due stanze, una ottagonale, l’altra circolare, accanto ad una figura ovale. Delle due, quella ottagonale, oltre agli affreschi in cortine a merletti traforati, ha il pavimento tassellato a diversi colori con cinque teste muliebri, una in mezzo e quattro negli angoli e, negli opposti interstizi, pesci, delfini ed altro. La stanza circolare, nasconde in gran parte il disegno a mosaico. Tutta l’area della vigna di Valentino Labanca, è cosparsa di loculi, di ossa umane, di tegole servite a rappezzi di muri di cinta e della casa rurale di questo, fondata su vecchie fabbriche, che testimonierebbe la presenza di una villa o del suo ipogeo. E’ incerto se le due stanze appartennero alla villa di Vezzio o all’ipogeo, ma sembra più probabile all’ipogeo, poiché una delle due lapidi, è una curva ad arte, che sta sul muro della stanza circolare[13].
All’esterno del muro c’era un’epigrafe del III-IV sec.: Tizio liberto di Publio, Niceforo maestro mercuriale Augustale destina la tomba per sé, per Marco Picacilio, liberto della moglie Picacilia, maestro mercuriale Augustale e per Tizia, liberta di Publio Filemazione madre[14].
Sembra che un liberto avesse costruito un simile ipogeo, assumendo prenome e nome del proprio signore. La profusione del lusso pagano, che si ritrova perfino i pavimenti e nelle pareti dei sepolcri, come era usato dai facoltosi e il tipo delle stanze, incontra la più sicura spiegazione nelle tombe romane.
Piacque a taluno conservar nell’asilo delle ceneri la somiglianza delle abitazioni dei vivi… Non si lasciavano spoglie di eleganti ornamenti, di finissimi stucchi, di leggiadre scolture, nonché di eleganti mosaici nel pavimento[15].
L’altra delle due lapidi menzionate indica che un luogo di delizie, divenuto ricettacolo di morti, continuò nel medioevo, periodo nel quale un Furio Rufino destinava alla suocera benemerita, Furia Faustina vissuta 70 anni, un cippo con iscrizione: Fur. Faustine Socrefur. Rufinus. B. M. T. Que vix a. LXX.
La presenza delle numerose ville, suburbane o rusticae, testimonia la grande abitabilità offerta dalla zona, con i suoi servizi di permanenza e di transito, le cui vestigia sono rinvenibili non solo nelle testimonianze emerse dagli scavi.
Esse disegnano la presenza di diverse contrade, vitalizzate dal concetto della unicità della cittadella-patria grumentina, collegate tra loro; si dimostrano in grado di offrire una più intensa articolazione di funzioni al praedium e, nello stesso tempo, esercitano le tecniche dell’autogestione che accompagna lo spirito di associazione, ma anche il rispetto del diritto, pubblico e privato e quello della tutela religiosa. Questi due aspetti appaiono in un unico soggetto, ma in due testimonianze.
La prima, ci perviene dal ritrovamento del cippo prope Viggianum, al mulino di Alli[16]: l’esistenza dell’iscrizione sepolcrale, avvalora l’ipotesi che lungo il torrente, viveva una piccola comunità di persone, dedita a trarre dai mulini ad acqua il necessario per la sopravvivenza[17]. Doveva trattarsi di una serie di mulini che servivano più di un nucleo abitato e la stessa città di Grumentum.
Il secondo aspetto ci viene proposto da Roberto da Romana[18], diacono della Chiesa saponariense nel 1162, che ha per protagonista ancora la famiglia di un Pactumeio (anche se appare come Pactumenio), in occasione della sepoltura di S. Lavorio: Corpus vero Beati Laverii à Dicilla Lucilla nobili femina cum viro suo Pactumenio Cristalli… pretiosis unguentis delibutum, aromatibus conditum, et lineis velis involutum in cypressina capsa conditum in eodem loco Martyrii honorefice sepultum fuit.
L’anno era il 312, i personaggi sono gli stessi o hanno il nome della stessa gens.
Il Caputi[19] ritiene che l’abbandono del pago fu dovuto non alle invasioni barbariche, bensì alle inondazioni del torrente Alli, che avrebbe impedito alle popolazioni di vivere tranquillamente. Non è da escludere, però, che il trasferimento sul colle del sito attuale si ebbe intorno al mille, al tempo cioè della caduta di Grumentum.
Tale evento allarmò la popolazione di tutti i centri vallivi della zona, poiché se i barbari avevano distrutto una munita e grande città, non avrebbero avuto difficoltà a distruggere centri minori. Tali centri erano numerosi intorno a Grumento, come quello della zona del Vetere a Moliterno, quello tra Viggiano e Marsicovetere, uno tra Paterno e Marsico Nuovo e un altro tra Paterno e Tramutola.
Le reliquie scoperte in dette zone, unitamente alla toponomastica delle stesse, confortano tale certezza, da cui deriva che Viggiano, nella primitiva sede, sorse ai tempi dell’impero romano; Moliterno, prima del Medioevo; le due Marsico prima del Mille e l’attuale Viggiano, insieme a Grumento Nova e Tramutola, dopo il mille.
Ambienti come il fiume Alli, che significa arginato, Cotura, terra posta a cottura o chiusura, Mattina, terra sboscata, aperta, sono indizi di una nuova società che succede alle catastrofi di fisici o sociali cataclismi ed incline ai lavori della terra. Sul versante a nord-est dell’esteso territorio si trova l’altro torrente: il Casale.
Le cresciute generazioni alla destra di Alli e del torrente alla balza di S. Maria la Pietra, tengono l’irto e faticoso colle a m. 1020, già occupato da un guerriero, da un prode arimanno, qui trinceratosi con i suoi figli, raggruppandosi in borgata, umile vassalla, a piedi della torre di un dinasta[20].
Dalla Via Herculia, (che collegava la Via Traiana e la Via Appia) e per l’Itinerarium Antonini, (da Anzi, Abriola, Marsico), si riversarono nella valle tribù di predoni, a cui si aggiunsero le angherie delle soldatesche e dei mercenari, e tutto ciò portò ad una crisi del commercio e dell’agricoltura. Ai contadini non restò che dare le proprie terre in affidamento, pro-anima o pro-tutela, e ritirarsi sulla collina vicina dove l’incerto culto januale era stato sostituito da quello di Mitra, la cui testimonianza è rimasta, per secoli, nella lastra del torrione del castrum di Viggiano.
Bibliografia e riferimenti:
[1] Il significato originario di Agri (probabilmente dal greco akiròs) è appunto inerte, e quindi lento, tardo.
[2] N. Ramagli, Nel cuore del Sud, Napoli, 1962, p. 164
[3] G. Flecchia, Stamperia reale di Torino, 1874
[4] T. H. Mommsen, Corpus Inscriptionum Latinarum, 1883, vol. X, p. 169
[5] G. Racioppi, Saggio della scienza etimologica, Napoli, 1872, p. 2
[6] G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, vol. I, op. cit., pp. 374-375
[7] F. P. Caputi, Tenue contributo alla storia di Grumento e di Saponara, Napoli, 1902, p. 42
[8] F. P. Caputi, ivi, op. cit, pp. 41-42
[9]G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, op. cit.
[10] F. P. Caputi, op. cit., p. 43
[11] ivi, op. cit.
[12] Corografia della diocesi si Marsico, p. 57
[13] F. P. Caputi, op. cit., pp. 43-44
[14] F. P. Caputi, op. cit.
[15] F. P. Caputi, ivi, op. cit.
[16] T. H. Mommsen, op. cit, n. 192, p. 26
[17] A. Signoretti, Il cippo di Pactumeia tra i mulini di Alli, Lagonegro, 1995, p. 11
[18] Gesta Sancti Laverii, in Italia Sacra, auctore Ferdinando Ughellio, tomus septimus, Marsicani Episcopi, Venetiis apud Sebastianum Coleti, 1721, p. 493
[19] Op. cit.
[20] Il marmo posto sul muro di levante del Castello, simboleggiò Mitra, non Giano, che ebbe culto a Grumento e che proveniva dalle rovine della stessa città o da Marcina. (Confr. cap. X). Lo stemma del comune innalza tre torri mattone, fondo cielo su monti color terra.